martedì 1 dicembre 2009

IVAN


Quando ero piccolo neanche lo vedevo il bancone. La domenica entravo nella pasticceria con qualcuno dei miei familiari e improvvisamente tutto diventava buio per me. Riuscivo ad orientarmi solo grazie al profumo che emanavano le paste esposte nelle vetrinette, una meta occultata al mio sguardo da diverse file di cappotti. “Ivan” era all’epoca, all’inizio degli anni ottanta, un piccolo locale rettangolare, col bancone disposto sul lato lungo e nei giorni di festa in pochi metri quadrati si radunava mezzo quartiere. La folla della Divina Provvidenza si dava appuntamento lì dopo la messa solenne delle undici, e dieci minuti dopo avere ricevuto la sacra ostia da don Enriore attendeva che “Ivan” distribuisse il sacro bigné. A Borgata Parella e dintorni tutti almeno una volta abbiamo ricevuto il corpo di “Ivan”, unendoci in una sorta di comunione profana di quartiere. “Ivan” in realtà lo si vedeva poco, perché a contatto col pubblico c’erano alcune donne in grado di fare vassoi del peso richiesto grazie all’occhio clinico di chi sa valutare la differenza tra la massa molecolaredi un diplomatico e quella di un tartufo. Però a volte “Ivan” si palesava tra i comuni mortali del girone dei golosi, magari su richiesta di qualche cliente che voleva conferire proprio con lui per farsi fare una torta a suo piacimento. Allora era una vera e propria apparizione, un po’ come se Cristo in persona fosse sceso tra i mortali per esaudire il desiderio di qualcuno. I clienti in coda al banco non seguivano più la commessa che li stava servendo, quelli delle retrovie non spingevano più per avanzare di qualche centimetro per contemplare le delizie del giorno. Quasi in un religioso silenzio le teste di tutti si voltavano verso la porticina del laboratorio sul lato stretto del negozio perché lì c’era lui: Ivan. Semplicemente Ivan e il cognome era un di più non necessario a capire di chi si stesse parlando a Torino Ovest. Mica ogni volta si dice Gesù Cristo di Nazareth? Basta Gesù e tutti capiscono. Conoscete altri Gesù? Forse? Beh io non conosco altri Ivan. Quando “Ivan” si incarnava nel corpo di Ivan un’aurea di polvere di vanillina si spandeva attorno alla sagoma di un uomo perennemente in tenuta da lavoro celeste, dal fisico asciutto e dai lineamenti del viso squadrati e ornato da folti baffi. A completare la figura un cappellino da pasticcere qualunque. Non un copricapo da vanagloria della pasticceria, ma un triangolino di stoffa come qualunque umile artigiano delle arti bianche. Non mi stupirei se mi dicessero che il padre del piccolo Ivan era un falegname…

L’estatico cliente ordinava il suo dolce a piacimento e Ivan trasfigurato vergava a matita su un quadernetto le sue richieste. Qualche volta anche mio padre ha fatto delle richieste ad Ivan che già sapeva quanti etti di “Pan di Spagna” ci sarebbero voluti per soddisfare le esigenze gastriche di una famiglia del Sud. E io posso dire di averlo visto da vicino mentre faceva scivolare la punta della matita sulle righe del quaderno. Ascoltava e parlava poco, con un sintetico vocabolario fatto di parole tipo: etti, chili, più tardi, domani, in frigo.

Negli anni novanta “Ivan” si è ampliato, il rettangolo si è triplicato e il locale è diventato più luminoso, forse perché anche io sono diventato nel frattempo più alto. Negli ultimi anni sono apparse anche le praline e il gelato. “Il gelato di Ivan”, ovviamente.

Sebbene la mia infanzia sia legata al gusto del dolce, testimoniato dalle copiose vomitate acetoniche dei miei primi dieci anni di vita, il mio ricordo papillare di “Ivan” è legato alla percezione del salato. Accanto alla produzione di paste fresche e secche (queste ultime per le madamine che prendevano il thè, per gli ammalati che le creme non le potevano mangiare e per i tirchi che non volevano spendere tremila lire di più), c’era quella dei salatini e se oggi potessi mangiare ancora un suo involtino (quello con acciuga e peperoni) o una pizzetta (quella al pomodoro con l’olivetta verde snocciolata sopra), credo che rivivrei un momento assolutamente proustiano. Mi tornerebbero alla mente tutte le occasioni di festa suggellate dallo scartamento della confezione marrone scuro con la scritta “Ivan” a caratteri dorati: dalla laurea in scienze biologiche alla maturità scientifica e via via più indietro fino alla prima comunione e persino il subcosciente ricordo della doccia fatta con l’aspersorio di don Enriore al mio battesimo riaffiorerebbe nitido come se vissuto in quel momento.

Oggi Ivan non c’è più, stroncato da un male. Non c’è più nemmeno “Ivan”, chiuso per sempre. E pure i fedeli alla messa della domenica, dicono le cronache, sono diminuiti.

P.S.: Ivan non si chiamava Ivan. Ma… PASTICCERIA IVAN di GIBIN BIAGIO Torino via Carlo Capelli 19

mercoledì 26 agosto 2009

Ultimo giro di Micra


E’ arrivato anche per la “rossa di via Baveno” il tempo dell’addio a questo mondo. Tra qualche giorno le sue fattezze saranno più prossime alle scatolette della Simmenthal, che ad una simpatica coccinella ciccia. Sono a Torino in questo periodo e oggi ho voluto dare il mio saluto a questa pallina su quattro ruote del Sol Levante. Non sono un patito di automobili e neanche la possiedo la macchina, questa è dei miei nonni materni. Che ho sempre utilizzato alternandola alla Clio nera dei miei genitori, a seconda della disponibilità. Non so se la Nissan Micra, verrà guidata ancora nelle prossime settimane e non so se al mio rientro da Milano a fine settembre la troverò ancora. Infatti sulla sua testa pende una condanna a morte di sicura esecuzione: la sua carcassa in cambio di uno sconto su una nuova vettura. Quando sei vecchio non servi, è il destino delle cose e delle persone. E le macchine longeve non le fanno più. Difficile che un’auto nata dopo il 1980 possa diventare una vettura storica. Da quella data in poi le hanno fatte col culo e pronte all’autodistruzione dopo pochi anni. Epoca che curiosamente coincide con la fine della "classe operaia". La Micra aveva preso il posto della Ritmo Energy Saving nel mio dirozzamento automobilistico e con lei avevo perso anche la verginità autostradale, compiendo la mia prima traversata d’asfalto da Torino a Gatteo Mare, dalle parti di Cesenatico, il primo agosto 1994. I miei genitori erano in vacanza altrove e io sarei andato sulla riviera Tondelliana coi nonni Vito e Carmela. Vito mi disse: “Guida tu.” E con mooolta calma e qualche sorpassino stretto tra i tir, dopo sei ore di viaggio arrivammo a destinazione. Vivi. La Micra ha le messe in moto contate e forse con quella di oggi è iniziato il countdown: meno dieci… Ho fatto salire in auto Vito e Carmela, proprio come quindici anni fa, e ho puntato verso la Val di Susa. Non volevo che i suoi fari a mandorla vedessero come ultima cosa targhe di automobili guidate da cafoni, buche nell’asfalto, strisce blu, dossi di plastica rigida, piccioni da pressare e merde di varia natura che popolano il bitume metropolitano. Col muso rubino che guardava in direzione Sacra di San Michele, ho girato su strade secondarie per Collegno, Pianezza, Alpignano, Avigliana, Rosta, là dove le case si fanno più basse e i palazzi lasciano il posto alle cascine. Le ho fatto provare strade nuove e le ho fatto vedere dove vive la gente che cammina anziché correre. Abbiamo abbassato i finestrini per farle sentire un’aria migliore di quella di corso Francia, angolo via Baveno. Lei ha risposto benissimo: accelerazione, frenata, tenuta del minimo, curve e controcurve, consumi. Di ritorno dalla nostra ultima ora, l’ho parcheggiata sotto casa dei nonni e siamo scesi tutti. Vito e Carmela sono entrati nel loro portone e io mi sono diretto verso casa dei miei. Le ho dato ancora un ultimo sguardo, non mi piacciono gli addii, ma guardando la sua schiena liscia e tonda non ho potuto fare a meno di sussurrarle: “Sayonara, Micra!”

martedì 28 luglio 2009

Ventimila leghe sotto il marciapiede



Antò, come lo chiama affettuosamente la moglie, si fa bello davanti allo specchio del bagno. Ha messo la camicia bianca nuova che ha trovato in saldo alla Upim e si annoda la cravatta rossa che mette sempre nelle occasioni speciali. Angelina, che per oltre trenta anni si è alzata con lui alle cinque del mattino per preparargli il “baracchino” da portar via, lo osserva rimirandolo come farebbe una ragazzina innamorata. Oggi c’è il pranzo organizzato dai compagni della fabbrica per il suo pensionamento e tutti, mogli comprese, si sono dati appuntamento presso una trattoria fuori Torino. Sulla loro Panda blu dall’andatura vivace, dopo essersi lasciati alle spalle Mirafiori, cantano con Nicola Di Bari che si srotola nel mangiacassette. La “grigia Torino” è oramai alle spalle e la verde Val Chisone si apre ai loro occhi in questa prima domenica d’estate. Angelina ha le ginocchia scoperte e Antonio non può fare a meno di rimirare quelle gambette che tanti anni fa lo hanno fatto innamorare. Pure Angelina non può fare a meno di posare gli occhi sulle mani del marito, che saltellano dal cambio al volante e viceversa. Mani callose appartenenti ad un corpo minuto ma forte, temprato dagli anni in fonderia e nell’inferno delle ferriere al fondo di corso Svizzera, lungo il fiume Dora. “Il cuore è uno zingaro”, Antonio la canta a pieni polmoni e quando canta non balbetta, non incespica sulle parole. La sua bocca storta, sotto un occhio sempre leggermente strizzato come se facesse l’occhiolino, si riempie di grazia quando canta o quando pronuncia il nome di sua moglie.

Baci, abbracci, feste e risate: lo scambio di saluti tra gli operai, alcuni ancora in servizio e altri già in pensione, rivela un trascorso di fraterna complicità. C’è allegria alla tavolata del ristorante dalle parti di Fenestrelle. Lavoratori e consorti, una decina di coppie in tutto, sono seduti in maniera alternata attorno ad un grande tavolo rettangolare. E in un angolo, un pacco regalo gigante tutto per Antò.

Con gli antipasti sono serviti i ricordi degli emigranti, dal paesello a Porta Palazzo. Coi primi arrivano le rivendicazioni, le lotte sindacali, le proteste e gli scioperi. A contorno dei secondi, forse rievocata dalle costolette nei piatti, compare la famiglia Agnelli, e ognuno la “condisce” di commenti a piacere.

Poi, in attesa del dolce, c’è il tempo per una sigaretta in giardino per gli uomini e della “toiletta” per le donne: è tempo delle chiacchere sportive. Juve. Toro. Toro. Juve. Qualcuno Inter o Napoli. Nessuno Milan.

“Porto il gelato?” chiede il cameriere alla compagnia. “Sì, che poi andiamo a farci una passeggiata”, risponde uno per tutti: il più robusto, l’ex sindacalista militante Mario Santullo.

Ripartono i ricordi di fabbrica e i racconti dei pericoli corsi. Tra un cucchiaino di gianduia e uno di fior di latte, le palline spariscono dalle coppette e si ammonticchiano le storie di presse maledette e vapori di vernici soffocanti.

Poi d’un tratto salta fuori un episodio. Una falla nell’impianto che prende acqua dalla Dora per il raffreddamento dei macchinari dello stabilimento Fiat di corso Svizzera. Là dove oggi c’è una distesa di cemento su cui sono venuti su, poco prima delle Olimpiadi, palazzoni e centri commerciali in riva al fiume, un tempo scorrevano corsi d’acqua deviati e “intubati” forzatamente sotto terra per servire la fabbrica.

“Antonio, ti ricordi quando siamo andati a riparare quel tubo, quindici metri sotto terra?”, dice con accento piemontese Piero Molino. Antonio non ricorda. Santullo si irrigidisce. “Ma sì, dai, che Santullo era caposquadra e che poi è scoppiato tutto”, insiste Molino e Antonio si sforza di ricordare. Angelina ha un brivido lungo la schiena. Santullo sibila a Molino: “Forse tu, ricordi male”. Antonio incomincia a sudare e a balbettare qualcosa: “Di-di-dieci… era di-dieci a-a-atmosfere”. Cala il gelo sulla tavolata e l’allegria si trasforma in tensione, come se un improvviso temporale stesse per squarciare il cielo terso d’estate. Il cameriere che nel frattempo si è avvicinato per servire i caffè, sentendo l’elettricità accumulata nell’aria, poggia rapidamente le tazzine sul tavolo e si allontana. Nessuno osa zuccherare e rimestare col cucchiaino, perché tutti notano che Antonio sta per implodere e Angelina invece è pronta ad esplodere.

Con tono minaccioso Angelina incalza Molino: “Piero racconta, cosa vuoi dire?”. Piero Molino si accorge di avere detto qualcosa che doveva restare un segreto tra lui e Santullo, ma non può fare a meno di andare avanti: “Eravamo lì io, te e… Santullo, tra la strada e le fogne, quindici metri sotto ai marciapiedi, per riparare un tubo. E boia faus, sembrava che era tutto a posto, avevamo avvitato la guarnizione quando diufà…”. Antonio ricorda, suda e ricorda, e sforzandosi di non balbettare completa il racconto: “E’ saltata la guarnizione e mi è arrivata in faccia, qui tra la bocca e l’orecchio, tutta l’acqua, un getto di acqua a di-di-dieci atmosfere. Come uno spintone e sono caduto, più giù nel canale che porta alle fo-fogne. Mi sono risvegliato all’ospedale… pi-pi-pissichiatrico. V-v-voi siete scappati”. Santullo prova a giustificarsi: “Siamo andati a chiamare aiuto, Antò”. “Ma il pulsante dell’allarme e-era vicino ai tu-tubi!”, ribatte Antonio con il puzzle della memoria che si completa. Angelina è un metro e cinquanta di tritolo, ora. Scatta in piedi e vorrebbe lanciare coltelli, bottiglie e bicchieri contro protagonisti e coro muto di questa tragedia sfiorata, per miracolo, venti anni prima e mai raccontata fino in fondo. Potrebbe uccidere, Angelina, per il suo Antò. Ma ha troppa dignità e allora prende suo marito per il braccio, lo fa alzare dalla sedia e seccamente chiude il discorso bruciando con lo sguardo Santullo e Molino: “E voi avete lasciato lì mio marito? Vieni Antonio, non rivedremo questi signori mai più.”

La compagnia silenziosamente rompe le fila e si dilegua dopo avere diviso il conto. Il caffè si è raffreddato nelle tazzine intatte e il pacco regalo gigante tutto per Antò è rimasto nell’angolo del ristorante.

La Panda blu ripercorre lentamente la strada dell’andata in direzione Torino. Nicola di Bari riposa nel cassetto del cruscotto. Antonio guida con le lacrime agli occhi: “Me ne ero scordato, Angelì. Non mi ricordavo più come erano andate le cose. E poi all’ospedale dei pazzi…”. “Basta, Antonio. Non tormentarti”, gli dice dolcemente Angelina e poi tenendo la mano che Antò ha poggiato sul pomello del cambio gli sussurra: “Ti amo, Antò”.

martedì 21 luglio 2009

La mucca vola!



In cerca di refrigerio salgo a piedi per boschi e borgate nell’alta Valle Germanasca, non lontano dal Forte di Fenestrelle, mentre l’estate soffoca Torino. Trasfigurato e asfittico per l’ascensione, mi ritrovo nella pace paradisiaca del secolare abitato di Laux, dove gli antichi Cristiani Valdesi furono trasformati in Cristiani Cattolici a colpi di roncola e forcone. Poche case tipiche, una chiesetta del Settecento e fontanelle qua e là per ristorare i viandanti. Il suono del silenzio avvolge il tutto e nelle mie orecchie ancora soffia il respiro del bosco che ho appena attraversato. “Un villaggio abbandonato?” , mi chiedo non vedendo anima viva. Presto però, irrompe col rumore di un gigantesco insetto un elicottero. Lo sento minaccioso sulla mia testa, ma non lo vedo. Corro allora verso la fine dell’unica via di Laux che sfocia su uno spiazzo erboso e lì trovo una piccola folla di residenti e villeggianti, riuniti in cerchio come ad una fiera di paese. E a perpendicolo, alto nel cielo, l’elicottero. Qualcosa penzola attaccata ad una corda, venti metri più sotto rispetto alla pancia del velivolo. “Che sia un barile pieno d’acqua per qualche incendio? O del materiale da scaricare a valle? O? Oh!” Riesco a definire l’oggetto mano a mano che l’elicottero si abbassa. Avvolta in una rete, come un polpo in trappola, c’è una mucca, col muso e un cornetto che escono dalle maglie. “Che cosa prova una mucca, che è sempre stata ancorata alla terra con quattro zampe, a sorvolare monti, vallate e cime di abeti? Che cosa prova a sentire il vento che le fischia sotto al culo, mentre attraversa una nuvola bianca?” L’elicottero è dei pompieri e i vigili delicatamente la adagiano sul prato, dove vi resta accovacciata. L’animale non sembra spaventato e il padrone le accarezza dolcemente la testona. Tutti tirano un sospiro di sollievo, mentre l’elicottero porta il suo frastuono altrove. “Hai visto? La mucca vola!” dice una mamma al suo bambino, che all’incirca avrà quattro anni o poco più. Il piccoletto però inizia ad agitarsi, a pestare i piedi e a frignare: “La mucca! La mucca!”. Ha un breve pianto disperato, come se presagisse un destino di sangue per il simpatico mammifero che fa il buon latte. Il moccioso allarma anche me e guardando la mucca immobile in mezzo al prato mi domando con sconforto: “Perché non si alza in piedi?”.

sabato 18 luglio 2009

Aguzzate la vista


Il nostro disegnatore ha compiuto sette piccoli errori nel realizzare i due soggetti, che apparentemente si assomigliano moltissimo. Scoprite le sette differenze.

Dall'incubatrice


Sono un un blog appena nato, dall'unione tra il seme dell'intelletto umano e l'ovulo della blogosfera. Sono il frutto di un istinto che è lampeggiato in una sera d'estate, come un amore consumato di notte su una spiaggia. Ora sono piccolo piccolo. Ma diventerò grande e scriverò. Appunti, riflessioni, spigolature. Sono qui da tre ore circa e già in tanti siete passati da questa "nursery". Grazie, spero di essere letto e di leggervi. Ora dormo: devo crescere!