martedì 28 luglio 2009

Ventimila leghe sotto il marciapiede



Antò, come lo chiama affettuosamente la moglie, si fa bello davanti allo specchio del bagno. Ha messo la camicia bianca nuova che ha trovato in saldo alla Upim e si annoda la cravatta rossa che mette sempre nelle occasioni speciali. Angelina, che per oltre trenta anni si è alzata con lui alle cinque del mattino per preparargli il “baracchino” da portar via, lo osserva rimirandolo come farebbe una ragazzina innamorata. Oggi c’è il pranzo organizzato dai compagni della fabbrica per il suo pensionamento e tutti, mogli comprese, si sono dati appuntamento presso una trattoria fuori Torino. Sulla loro Panda blu dall’andatura vivace, dopo essersi lasciati alle spalle Mirafiori, cantano con Nicola Di Bari che si srotola nel mangiacassette. La “grigia Torino” è oramai alle spalle e la verde Val Chisone si apre ai loro occhi in questa prima domenica d’estate. Angelina ha le ginocchia scoperte e Antonio non può fare a meno di rimirare quelle gambette che tanti anni fa lo hanno fatto innamorare. Pure Angelina non può fare a meno di posare gli occhi sulle mani del marito, che saltellano dal cambio al volante e viceversa. Mani callose appartenenti ad un corpo minuto ma forte, temprato dagli anni in fonderia e nell’inferno delle ferriere al fondo di corso Svizzera, lungo il fiume Dora. “Il cuore è uno zingaro”, Antonio la canta a pieni polmoni e quando canta non balbetta, non incespica sulle parole. La sua bocca storta, sotto un occhio sempre leggermente strizzato come se facesse l’occhiolino, si riempie di grazia quando canta o quando pronuncia il nome di sua moglie.

Baci, abbracci, feste e risate: lo scambio di saluti tra gli operai, alcuni ancora in servizio e altri già in pensione, rivela un trascorso di fraterna complicità. C’è allegria alla tavolata del ristorante dalle parti di Fenestrelle. Lavoratori e consorti, una decina di coppie in tutto, sono seduti in maniera alternata attorno ad un grande tavolo rettangolare. E in un angolo, un pacco regalo gigante tutto per Antò.

Con gli antipasti sono serviti i ricordi degli emigranti, dal paesello a Porta Palazzo. Coi primi arrivano le rivendicazioni, le lotte sindacali, le proteste e gli scioperi. A contorno dei secondi, forse rievocata dalle costolette nei piatti, compare la famiglia Agnelli, e ognuno la “condisce” di commenti a piacere.

Poi, in attesa del dolce, c’è il tempo per una sigaretta in giardino per gli uomini e della “toiletta” per le donne: è tempo delle chiacchere sportive. Juve. Toro. Toro. Juve. Qualcuno Inter o Napoli. Nessuno Milan.

“Porto il gelato?” chiede il cameriere alla compagnia. “Sì, che poi andiamo a farci una passeggiata”, risponde uno per tutti: il più robusto, l’ex sindacalista militante Mario Santullo.

Ripartono i ricordi di fabbrica e i racconti dei pericoli corsi. Tra un cucchiaino di gianduia e uno di fior di latte, le palline spariscono dalle coppette e si ammonticchiano le storie di presse maledette e vapori di vernici soffocanti.

Poi d’un tratto salta fuori un episodio. Una falla nell’impianto che prende acqua dalla Dora per il raffreddamento dei macchinari dello stabilimento Fiat di corso Svizzera. Là dove oggi c’è una distesa di cemento su cui sono venuti su, poco prima delle Olimpiadi, palazzoni e centri commerciali in riva al fiume, un tempo scorrevano corsi d’acqua deviati e “intubati” forzatamente sotto terra per servire la fabbrica.

“Antonio, ti ricordi quando siamo andati a riparare quel tubo, quindici metri sotto terra?”, dice con accento piemontese Piero Molino. Antonio non ricorda. Santullo si irrigidisce. “Ma sì, dai, che Santullo era caposquadra e che poi è scoppiato tutto”, insiste Molino e Antonio si sforza di ricordare. Angelina ha un brivido lungo la schiena. Santullo sibila a Molino: “Forse tu, ricordi male”. Antonio incomincia a sudare e a balbettare qualcosa: “Di-di-dieci… era di-dieci a-a-atmosfere”. Cala il gelo sulla tavolata e l’allegria si trasforma in tensione, come se un improvviso temporale stesse per squarciare il cielo terso d’estate. Il cameriere che nel frattempo si è avvicinato per servire i caffè, sentendo l’elettricità accumulata nell’aria, poggia rapidamente le tazzine sul tavolo e si allontana. Nessuno osa zuccherare e rimestare col cucchiaino, perché tutti notano che Antonio sta per implodere e Angelina invece è pronta ad esplodere.

Con tono minaccioso Angelina incalza Molino: “Piero racconta, cosa vuoi dire?”. Piero Molino si accorge di avere detto qualcosa che doveva restare un segreto tra lui e Santullo, ma non può fare a meno di andare avanti: “Eravamo lì io, te e… Santullo, tra la strada e le fogne, quindici metri sotto ai marciapiedi, per riparare un tubo. E boia faus, sembrava che era tutto a posto, avevamo avvitato la guarnizione quando diufà…”. Antonio ricorda, suda e ricorda, e sforzandosi di non balbettare completa il racconto: “E’ saltata la guarnizione e mi è arrivata in faccia, qui tra la bocca e l’orecchio, tutta l’acqua, un getto di acqua a di-di-dieci atmosfere. Come uno spintone e sono caduto, più giù nel canale che porta alle fo-fogne. Mi sono risvegliato all’ospedale… pi-pi-pissichiatrico. V-v-voi siete scappati”. Santullo prova a giustificarsi: “Siamo andati a chiamare aiuto, Antò”. “Ma il pulsante dell’allarme e-era vicino ai tu-tubi!”, ribatte Antonio con il puzzle della memoria che si completa. Angelina è un metro e cinquanta di tritolo, ora. Scatta in piedi e vorrebbe lanciare coltelli, bottiglie e bicchieri contro protagonisti e coro muto di questa tragedia sfiorata, per miracolo, venti anni prima e mai raccontata fino in fondo. Potrebbe uccidere, Angelina, per il suo Antò. Ma ha troppa dignità e allora prende suo marito per il braccio, lo fa alzare dalla sedia e seccamente chiude il discorso bruciando con lo sguardo Santullo e Molino: “E voi avete lasciato lì mio marito? Vieni Antonio, non rivedremo questi signori mai più.”

La compagnia silenziosamente rompe le fila e si dilegua dopo avere diviso il conto. Il caffè si è raffreddato nelle tazzine intatte e il pacco regalo gigante tutto per Antò è rimasto nell’angolo del ristorante.

La Panda blu ripercorre lentamente la strada dell’andata in direzione Torino. Nicola di Bari riposa nel cassetto del cruscotto. Antonio guida con le lacrime agli occhi: “Me ne ero scordato, Angelì. Non mi ricordavo più come erano andate le cose. E poi all’ospedale dei pazzi…”. “Basta, Antonio. Non tormentarti”, gli dice dolcemente Angelina e poi tenendo la mano che Antò ha poggiato sul pomello del cambio gli sussurra: “Ti amo, Antò”.

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